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Le riflessioni indigeste ai tempi del… parte 1

Ritratto di Rosa Buonanno
Inviato da Rosa Buonanno il Mar, 28/04/2020 - 17:59

La vita ai tempi del… no non lo dico, o meglio, non lo scrivo… Parola troppo detta, troppo letta, troppo digitata, troppo cercata, troppo pensata, troppo tutto… e anche troppo rivoluzionaria… nel senso che è prodromo di una rivoluzione che sta sovvertendo l’ordine precostituito su cui si basano le nostre egocentriche, reazionarie sicurezze.

Da drogati di socialità veloce, consumata nei bar tra un caffè ed un aperitivo, ci siamo auto rinchiusi, guardinghi, fra le mura domestiche, spinti da decreti, ordinanze e paure. Improvvisamente indifesi e in preda al panico, rimaniamo e teniamo tutti a distanza, persino il gatto, colpevole di non essersi sottratto a carezze e baci che a dicembre, ha ricevuto da quegli incoscienti egoisti che se ne andavano in giro per parenti a fare gli auguri, mentre la pandemia covava sotto gli alberi di Natale…

E’ difficile scherzare quando c’è da fare i conti con bollettini di guerra giornalieri, con degenti immolatisi alla solitudine ospedaliera, pensando di ricevere in cambio la guarigione. Lo scambio per tantissimi non è riuscito: la solitudine è rimasta con loro fino alla tomba.
L’ironia però, è un modo come un altro per esorcizzare la paura e provare a resistere a questa reclusione forzata che ci mette di fronte alle nostre fragilità personali e, in senso più ampio, a quelle politico-sociali. Fragilità che ci impongono una profonda e spietata riflessione che dovremo fare tutti e a tutti i livelli.

Il primo livello su cui fare una riflessione è quello personale. E’ il livello di superfice, quello che non richiede lavori di scavo, quello che si palesa subito, con sensazioni, percezioni, emozioni sparse in giro per i neuroni cerebrali e che hanno ingarbugliato il fluire organizzato dei pensieri. Ecco su cosa fare una prima riflessione: su ciò che ha invaso il sentire quotidiano in questi tempi infetti.

Senza neanche un accenno di eruttazione da riflusso, è salito tutto alla bocca dello stomaco: fastidio, disagio, rabbia, rassegnazione, ansia, irrazionalità, fatalismo, voglia di arrendersi, voglia di resistere, spiritualità spicciola, religiosità interessata, paura di morire, paura di vivere.
Il fastidio di lavarsi le mani 70mila volte al giorno, di sentire il proprio alito bloccato all’interno della mascherina, di scrivere una lista della spesa chilometrica; di scoprirsi egoisti e rancorosi verso la qualunque, percepita come pericolo.

Il disagio quando hai visto avvicinarsi qualcuno e hai cercato una via di fuga onorevole, che non ti facesse apparire paranoica; quando sei stata costretta ad interloquire con chi non indossava guanti e mascherina; quando il buon umore l’ha avuta vinta sul senso di colpa e hai riso a battute sul virus.
La rabbia verso quelli che continuavano a girare per strada fregandosene dei divieti; per la connessione che non funzionava; per l’ennesimo intervento inopportuno del politico di turno.

La rassegnazione a mangiare la pizza fatta da te e che, a dispetto di procedimenti ed ingredienti sempre uguali, non ha avuto mai lo stesso sapore; a farsi carico di tutte quelle faccende domestiche e familiari che si erano delegate ad altri; ad affidarsi completamente a qualcuno che non ha mai avuto la tua fiducia ma che si è apprezzato perché ha preso le decisioni per te, perché nel cavalcare le tue paure, te ne ha liberato; a barattare le inalienabili libertà personali per un’immunità che, in realtà, nessuno ti ha potuto garantire.

L’ansia per ogni suono del citofono; per ogni piccolo dolorino che ti ha angustiato; per ogni piccolo dolorino che ha angustiato un tuo familiare convivente; per non sapere di ogni piccolo dolorino che ha angustiato un familiare lontano; per ogni aggiornamento dei contagi.
L’irrazionalità che ha ti condotto ad abbracciare le tesi più assurde. Un abbraccio questo, ancor più dannoso di quello scambiato con una persona. Sì perché, se con le persone si ha qualche possibilità di non prendere il virus, abbracciando il vacuo di alcune teorie, si finisce sicuramente per ammalarsi di rimbecillimento acuto.

Questo tu lo sapevi, ma non sei riuscita a liberarti del tutto dell’improbabile e consolatoria fake, venuta in aiuto a gestire le ansie.
Il fatalismo che ti ha colto quando eri stanca e non ce la facevi più e ti sei detta: “ma sì… chi se ne importa, domani si esce a fare la spesa, domani niente più preoccupazioni, domani sarà quel che sarà, domani mi tuffo tra le nanobraccia del nanovirus e così mi tolgo il pensiero”. Domani però…

La voglia di resa incondizionata, di affido totale, dell’abdicazione della volontà: fate di me quello che volete, purché finisca presto; basta con le polemiche, basta con dibattiti sull’opportunità di questo o quell’intervento; basta opporsi: si faccia, si risolva e poi discuteremo della sorte dei prigionieri detenuti in casa…
La voglia di resistenza ad oltranza, di opporsi all’annientamento della volontà in nome della sicurezza; opporsi alle strumentalizzazioni, alle maschere trionfalistiche che nascondono disastri mai visti; alla disumanizzazione dell’immunità di gregge e delle ragioni dell’alta finanza, al prevalere della forma sulla sostanza.

La spiritualità spicciola, quella che fa dire: “doveva accadere primo o poi che la natura si ribellasse alla tracotanza umana”. Quella che fa dire che dovevamo fermarci, rallentare, recuperare le cose importanti: la famiglia, gli affetti, le amicizie; quella che fa dire che la terra aveva bisogno di prendere respiro, aveva bisogno di ricordarci che non gli siamo utili, che siamo ospiti, non i padroni di casa; quella che ti ha fatto recitare il mantra “andrà tutto bene”.

La religiosità opportunista, espressa pregevolmente dalla Vanoni nella frase: “Proviamo anche con Dio, non si sa mai”.
La paura di morire, che non è quella che ci accompagna per tutta l’esistenza consapevole, ma è quella che ti ha infuocato la testa, perché l’hai percepita in agguato in ogni angolo non disinfettato, in ogni respiro inalato, in ogni centimetro calpestato. E’ quella paura legata all’incontrollabilità delle variabili, che ti ha fatto sentire alla mercé di un nemico invisibile eppure materiale, considerando il peso e lo spazio occupati negli emisferi cerebrali.

Questo peso e questo spazio appesantiscono e ingombrano anche lo stomaco e non c’è Gaviscon che funzioni. In tutto questo marasma, che neanche i succhi gastrici hanno sciolto, c’è poi, un boccone che ti è rimasto in gola e che sembra soffocarti: è la paura di vivere.
È quella paura che ti farà rimanere in casa anche quando ti sarà concesso di uscire, che ti farà evitare qualsiasi coinvolgimento con l’esterno; è quella che ti farà assuefare alle relazioni sui social, unica soluzione per mantenere i rapporti con i tuoi amici senza il contatto; che ti farà sentire come sicuro, solo il confronto con il mondo che potrai gestire accomodato sul tuo divano, davanti ad uno schermo.

Quella paura che annienterà l’esigenza di vivere le strade, le piazze, i luoghi fisici e sociali e ti convincerà che le mura domestiche siano gli unici dispositivi di sicurezza idonei a difenderti dal contagio. Questa è la liquida lezione che si sta diffondendo insieme al virus: più la terra si trasforma in “villaggio globale”, più sono vicini gli abitanti del mondo, più alti sono i rischi per la tua vita. Non più strette di mano, non più abbracci, non più baci, non più carezze come segno di empatia, accoglienza e solidarietà fra i popoli e fra le persone…solo la paura.…Ed è di questa paura, che ho più paura…

-copyright image Cafiero-

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