Addolorata era una bambina allegra e paciosa, con un nome terribile, a cui si era ribellata appena nata, quando, uscendo roccambolescamente dalla galleria materna, invece di piangere, aveva salutato la luce improvvisa e le facce dei presenti, con un sorriso e uno sbadiglio. Questo non aveva fatto desistere i genitori dall’affibbiarle quel nome iellato, presagio di tristi momenti. Ma di questo Addolorata, all’età di 8 anni, non aveva ancora coscienza e, ottimista e fiduciosa come era, scendeva allegra le scale del condominio, sicura che un posto in squadra lo trovava sempre.
D’altra parte suo fratello Pietro era il capitano e tutti lo rispettavano e se lui la voleva in squadra, nessuno si sarebbe ribellato. Il punto era che Pietro, in squadra, non ce la voleva. Quella sorella lo metteva in imbarazzo con i suoi amici che sbuffavano appena la vedevano arrivare. Era cicciona, lenta, paurosa, incapace di tenere la palla al piede. Neanche in porta sapeva stare perché, per la paura di rompere gli occhiali, non si buttava mai a terra e quando la palla arrivava centrale, si copriva la faccia con le mani e neanche guardava dove andava a finire. Insomma era una frana e poi… era una FEMMINA… Mannaggia Gino e la varicella… mannaggia a lui stesso che le aveva chiesto di sostituirlo…
Da allora ogni pomeriggio se la trovava sul campo e pure se c’erano tutti, si metteva seduta a bordo campo, aspettando che qualcuno si sbucciasse una gamba, che fosse richiamato dalla mamma per i compiti, che litigasse con la squadra perché non gli passavano la palla… A lui dava fastidio guardarla in quella strana posa d’attesa… gli sembrava una civetta del malaugurio e soprattutto non la sopportava quando diceva “Posso giocare anch’io? Mi metto in porta… Là sono brava… Lo ha detto anche Pietro!”. Lui non poteva spiegare ai compagni di fronte a lei, che lo aveva detto per non mortificarla troppo. Lei, dopo la sua prima partita non faceva che chiedergli “Com’è andata? Come sono andata? Sono stata brava?” Lui le aveva detto che se la cavava per sfinimento, sperando bastasse ma lei aveva continuato con la tiritera: “Sono stata brava, vero? Sì, soprattutto su quella palla alta che mi sono dovuta alzare sulle punte per prenderla… - Ma se quella la prendeva anche un bambino di tre anni…
Non aveva avuto il coraggio di dare il sonoro ai suoi pensieri e ora, per punizione, doveva subire gli sbuffi, le risatine, le battutine degli amici. Quel pomeriggio però, Pietro con la sua squadra era tre goal sotto, e malgrado avesse scelto lui per primo, si era ritrovato in squadra delle mozzarelle che perdevano ogni contrasto e proprio non ce la facevano a correre. “Stì stronzi” stava pensando, quando ecco che vide Addolorata che si avvicinava con un bombolone in bocca.
Pietro continuò a giocare urlando come un Trapattoni, incazzato nero con Nicola che non la finiva di fare il Sivori, non passando la palla neanche a sparargli. Urlava a Nicola, ma il suo sguardo era rivolto alla sorella e diceva “Addolorata, non è giornata, fai marcia indietro e va a giocare alla maestrina con le bambole”. Addolorata però, non sentì o non capì le parole pronunciate dagli occhi del fratello e, appena arrivò ai bordi del campetto, cominciò a chiamare Pietro e poi gli altri giocatori. Nessuno le dava retta e allora Addolorata, stanca di urlare al vento, entrò nel campo e appena il pallone le fu vicino, lo prese mettendoselo sotto il braccio.
- Ma che sei scema? Posa stò pallone e facci giocare.
Per niente intimorita, Addolorata chiese “Posso giocare anch’io?” Mi metto in porta…
- …Eh se, così ne prendiamo altri 10 di goal…
- Pietro senti, se gioca lei, io me ne vado…
- Sì, facciamola giocare… però Pietro, ve la prendete voi, così la squadra degli scarsoni è completa…
Pietro, per chiudere con le battute degli amici, si riprese furioso la palla e tirandola per lo stesso braccio dove prima lei teneva il pallone, l’accompagnò di forza fuori del campo…Per essere certo che quello che lui voleva dire fosse inteso, stavolta Pietro, anziché gli occhi, usò la bocca… E il suo messaggio fu talmente chiaro che Addolorata non solo non si presentò più sul campo, ma non rivolse la parola al fratello per molti giorni, né salutò più gli altri componenti della squadra e non dimenticò nelle sue preghiere serali di chiedere a Gesù Bambino, di punire Pietro - quel Giuda - e i compagni, nel modo che preferiva, anche se lei glie ne suggeriva sempre qualcuno.
Addolorata cominciò a riempire i pomeriggi guardando i cartoni da sola. Il suo preferito era Genny la tennista… Le piaceva quell’esile figurina che si muoveva come una pazza da una parte all’altra del campo, e poi le piaceva come vinceva: cominciava sempre le partite nel modo peggiore ma poi riusciva a vincere tutte le volte. A letto, prima di addormentarsi, si immaginava con la gonnellina bianca muoversi leggiadra per il campo… Certo, doveva perdere qualche chilo ma tra poco sarebbe diventata una donna e, si sa, quando una bambina diventa donna, si fa sempre più secca e più alta. E per gli occhiali avrebbe risolto con le lenti a contatto. “Ed ecco a voi Addolorata la tennista”… Non suonava tanto bene… E se mi facessi chiamare Dora? Dora la tennista… Sì! Decisamente meglio.
Così si alimentavano le fantasie di Addolorata che, sola nella sua stanzetta, progettava una rivalsa morale sul fratello che aveva osato dire che lei, con lo sport, non poteva avere niente a che fare. Secondo lui, neanche la spettatrice poteva fare, perché portava sfortuna.
La sua passione per il tennis era diventata così grande che la mamma decise di iscriverla ad un corso per bambine. Sicuramente le avrebbe fatto bene… e forse sarebbe riuscita anche a perdere qualche chilo. Ottimista e fiduciosa com’era, Addolorata scese le scale degli spogliatoi allegra e orgogliosa della divisa e della racchetta nuova, sicura che quella fosse la sua strada per la gloria e per la rivalsa sul fratello.
La mamma assisteva alla lezione seduta sugli spalti. Entrata in campo, Addolorata si guardò intorno per vedere dove era il suo istruttore… Chissà se era bello come quello di Genny… C’erano vari giovanotti nelle vicinanze e lei li osservava cercando quello che assomigliava di più all’istruttore della sua eroina. All’improvviso, un omone grosso come un camionista tedesco, le disse di raggiungere le altre bambine in fondo al campo per gli esercizi di riscaldamento.
Dopo un’ora e mezza era in macchina con la mamma di ritorno a casa. Addolorata silenziosa e seria, teneva gli occhi bassi per non far vedere le lacrime che sentiva scenderle sulle guance…
La mamma attenta alla guida, non osava chiederle niente. Del resto, cosa doveva chiederle? Seduta sugli spalti, non si era persa neanche una caduta, neanche una palla presa in pieno viso, né quelle mancate. Sembrava che le palle non ne volessero sapere di finire sulla sua racchetta, oppure che lei non le vedesse proprio: le aveva lisciate tutte. Alla fine, come se non bastasse, si era pure data la racchetta sulla fronte, in uno strano servizio in cui la racchetta era volata insieme alla palla per ricadere poi su di lei. Arrivate a casa Addolorata si rifugiò di corsa nella sua stanza, ringraziando Gesù Bambino per avere fatto in modo che Pietro non ci fosse.
Quella sera non cenò e neanche guardò i cartoni, soprattutto perché il lato della fronte su cui era caduta la racchetta, si era talmente gonfiato, da farle chiudere l’occhio. Andò a letto senza far vedere a Pietro quel segno ufficiale e inequivocabile del suo fallimento, ma, prima di addormentarsi, disse le sue preghiere serali aggiungendo alle solite cose, la richiesta a Gesù Bambino di punire, nel modo che preferiva (ma lei glie ne suggerì più di uno), tutti i fabbricanti di palline da tennis e anche quelli delle racchette…
Da quel pomeriggio, anche Genny la tennista diventò una traditrice, un Giuda, e per questo i suoi cartoni furono banditi. Le furono preferiti i documentari sugli animali che l’ accompagnarono fino all’estate senza palle e senza sforzo fisico.
Finalmente arrivò il sole e il caldo e si cominciò ad andare a mare. Addolorata, ottimista e fiduciosa com’era, percorreva la pedana che portava agli ombrelloni con il suo costumino intero rosa, che faticava a contenere l’eccesso della sua figura, non ancora ben identificabile nelle sue parti. Nel percorrere la pedana, sentì un vocio rumorosamente allegro e girandosi, vide che il campetto di pallavolo era occupato da un gruppo di ragazze e ragazzi che giocavano. Si avvicinò e si mise a guardare e più guardava, più sentiva il pizzicorio dell’invidia solleticarle lo stomaco. Avrebbe voluto anche lei far parte di quella gioiosa comitiva e giocare bene come una ragazzina bionda che sembrava un maschio tanto era brava. A vederla là ferma che li fissava, uno dei maschi del gruppo le chiese se voleva giocare.
- No, grazie mia mamma mi aspetta…
Alla domanda del ragazzino, un rossore violento le era balzato sulla faccia, portato dal ricordo delle partite di calcio e dell’esperienza con la palla da tennis. Per quanto l’affiorare di quei ricordi l’avesse fatta abbronzare di botto, Addolorata non riuscì a stare lontana da quel campo e dopo qualche giorno si trovò là, in procinto di iniziare la sua prima partita di pallavolo. Per precauzione, ripeté più volte ai nuovi compagni di gioco, che non aveva mai giocato a quello sport, ma nessuno diede peso alla cosa:
- Ma dai, non vorrai farci credere che non hai mai giocato a pallavolo d’estate sulla spiaggia?
- Ma se ci giocano anche i bambini di 3 anni…
- …E poi, é l’unico gioco che sanno fare anche le femmine…
- Dai! Non ti preoccupare, non ci vuole poi una gran bravura a mettere le mani sotto al pallone per mandarlo nel campo avversario.
Rassicurata da queste parole, si era fatta spiegare le regole più importanti e i movimenti fondamentali… Ma, d’altra parte, erano giorni che li guardava e sapeva come si faceva il palleggio, la schiacciata, il muro, il baker, o perlomeno li sapeva riconoscere quando li facevano gli altri. Si mise nel punto indicatele dal capitano della sua squadra e cominciò ad oscillare con le gambe aperte e piegate, così come si faceva in attesa della battuta degli avversari. Fu l’unica cosa che riuscì a fare. In qualunque modo mettesse le mani, infatti, la palla, invece di andare in avanti, diretta nel campo avversario, andava all’indietro e suoi compagni, trovandosi sempre spiazzati, non riuscivano a rilanciarla dall’altra parte.
La mortificazione cresceva con il numero dei punti che la squadra avversaria guadagnava grazie ai suoi errori. Per evitarsi l’ulteriore umiliazione di essere messa fuori - cosa che l’avrebbe definitivamente fatta liquefare sulla sabbia- abbandonò la partita con una scusa che non aveva pretese di credibilità, ma che gli altri accolsero come il “verbo rivelato” e, con falsa gentilezza, la salutarono. Mentre si allontanava, sentii i commenti alla sua performance… Per allontanare le sue orecchie da quel borbottio divertito, cominciò a correre sulla sabbia che, malgrado fosse cocente, non le bruciava quanto le lacrime sul viso.
Addolorata, ottimista e fiduciosa com’era, si guardava allo specchio, con la sicurezza che di lì a poco, il suo corpo si sarebbe trasformato in quello di una favolosa modella. Oramai aveva quasi 11 anni ed era cresciuta di ben 4 cm negli ultimi 5 mesi… La pancia la tirava in dentro e il petto lo metteva in fuori, trattenendo il respiro fino a scoppiare. Nel pieno dell’apnea, la mamma la chiamo perché c’era Stefy al telefono:
- Ciao Ste…’
- …
- …Dove ti devo accompagnare?
- …
- Sì, va bè, ci vengo, ma non farti delle strane idee, perché ho avuto brutte esperienze e proprio non mi va di frequentare il corso di minibasket o di qualsiasi altro sport.
- …
- Secondo me è una fesseria… Dove mai si è sentito che la pallacanestro fa diventare alti…
- …
- Scema… Quelli già sono alti di loro, e gli allenatori li prendono in squadra perché in questo sport servono gli alti…
- …
- Va be’, ci vediamo alle 4 mezza.
Eccola là Addolorata, in mezzo a 14 ragazzine, con la sua bella divisa giallo limone con i bordi blu. Si era decisa a fare l’ultimo tentativo con lo sport e con la palla. Magari è vero che la pallacanestro fa diventare più alti, aveva pensato, e così aveva cominciato. Con sua sorpresa, le era piaciuto il corso e si divertiva sempre molto. Dopo qualche mese aveva appreso i fondamentali. Certo, non li padroneggiava ancora, ma comunque il suo istruttore la convocò per partita della domenica, contro la squadra femminile di un paese vicino.
Era agitata in panchina… Era combattuta dal desiderio di giocare e la paura di fare una delle sue solite figure con la palla. Fortunatamente la sua squadra era sotto di 40 punti e, di sicuro, i suoi errori non sarebbero stati determinanti per il risultato. A questo pensò per tranquillizzarsi quando entrò in campo a pochi minuti dalla fine.
Gli spalti erano gremiti di genitori invasati e parentado vario che urlavano come pazzi. Della sua famiglia non c’era nessuno… perché nessuno sapeva della convocazione. Nelle prime azioni in cui fu coinvolta, svolse attenta il suo compito riuscendo anche a fare un paio di palleggi senza perdere la palla e a difendere con successo su un’entrata in terzo tempo. Ad un certo punto si ritrovò con la palla a centro campo da sola, in una classica azione di contropiede… Percorse i metri che la separavano dal canestro, pregando Gesù Bambino di non farle perdere la palla, di tenere lontane le avversarie, di non farla cadere per la velocità e, per finire, di accompagnare la palla dentro il canestro… Il tiro che arrivò sul tabellone, esprimeva esattamente lo stato d’animo di Addolorata: la palla colpì così violenta il tabellone che questo vibrò per qualche minuto mentre il pallone ritornò a metà campo per il contraccolpo. Addolorata subì un rinculo fisico e morale che la fece cadere a terra malamente. Uscì dal campo dolorante ma con i complimenti del suo allenatore che però, da allora, non la convocò più.
Malgrado lei si impegnasse negli allenamenti e non ne perdesse neanche uno, nessuna delle campagne, neanche Stefy, la sceglieva quando c’era da fare qualche partitina. Spesso le facevano fare l’arbitro per tenerla impegnata e non sentirla elemosinare un minutino di gioco. Dopo un po’ di tempo, stanca di stare sempre a chiedere “posso giocare anch’io?” ma ancora più stanca di sentirsi rispondere sempre “No, tu no, perché bla , bla, bla, bla…”, smise di frequentare i corsi ma andava lo stesso in palestra solo per fare l’arbitro. Di questo suo abbandono era a conoscenza solo la mamma: Addolorata non voleva assolutamente che Pietro sapesse che era stata mollata anche dalle amiche di minibasket per la sua sfiga con i giochi di palla.
Nelle sue preghiere (quando si ricordava di farle), ora si rivolgeva direttamente al Padre di Gesù Bambino, pensando avesse maggiore autorità e possibilità di esaudire le sue richieste. Gli chiedeva di far sgonfiare ogni pallone da basket toccassero le sue amiche durante le partite… Ma poteva ancora considerarle amiche? No! Anche loro dovevano passare nella categoria di Giuda traditrici e Dio doveva fare in modo di concederle un’occasione di rivalsa, di vendetta su di loro…
Addolorata, ottimista e fiduciosa com’era, aspettava il rientro in campo delle squadre, sicura che neanche questa volta, ci sarebbero stati grossi problemi per portare a termine la partita senza contestazioni. Là, al centro del campo, pensò che aveva fatto bene a rivolgersi più in alto e, anche se aveva aspettato un po’ d’anni, la sua occasione era arrivata: era diventata uno degli arbitri giovanili di basket più richiesti e rispettati della zona.
La sua soddisfazione più grande era quando doveva arbitrare una partita delle sue ex compagne di squadra. Appena arrivava sul campo, la circondavano e, con falsa gentilezza, cominciavano a chiedere di lei, dei suoi studi, le facevano complimenti, pensando che lei si predisponesse favorevolmente nei confronti della loro squadra. Invece lei non si faceva condizionare, o comunque, non nel modo che credevano loro, anzi più l’adulavano e più il suo fischietto lavorava, segnalando anche le infrazioni minime, quelle che si sarebbero viste solo alla moviola e che generalmente si lasciano passare. Fare l’arbitro le portava anche soddisfazioni su Pietro. Suo fratello, infatti, spesso le chiedeva di arbitrare le partite di calcetto che organizzava con gli amici.
Addolorata conosceva le regole del gioco, aveva un fischietto professionale e anche una bella divisa. Qualche volta Addolorata si faceva pregare molto e poi neanche accettava, solo per la soddisfazione di dirgli “No”, per rifarsi di tutti i “No” che gli aveva opposto lui. Ma le piaceva di più accettare, perché era in partita che lei si divertiva ad umiliarlo di più. Ogni tanto, infatti, fischiava delle cose dubbie contro la squadra del fratello che cominciava a contestare animatamente sbracciandosi e sbraitando come un ossesso. Lei, con calma, rispondeva sempre allo stesso modo:
- Non crederai che siccome sono tua sorella, ti debba fare dei favoritismi! Io sono imparziale e se non ti sta bene, cercati un altro arbitro.
A questo punto faceva per uscire dal campo mentre gli altri della squadra, gli stessi che l’avevano derisa da piccola, la rincorrevano per fermarla e cercavano di fare da pacieri per non rimanere senza arbitro. Certe volte, se la prendevano con Pietro che non stava mai zitto e contestava sempre. Altre volte, lo minacciavano addirittura di metterlo fuori squadra se lui continuava a lamentarsi e a fermare la partita ad ogni fischiata. Ecco là la sua vendetta: dentro io, fuori tu!
Con la sua bella divisa e con il fischietto fra le labbra, Addolorata, ottimista e fiduciosa com’era, era sicura che lo sport e la palla non erano più suoi nemici e che la guerra contro di loro, l’aveva vinta lei.
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